Diavoli senza code

Matthias Canapini 12 Maggio 2020

Racconto

Tullio, 93 anni, e Maria, 87, sono gli osti dell’ultima storica osteria delle Marche, fondata più di cento anni fa. Dalla Maria, a San Lorenzo in campo. Un richiamo, un porto di collina, un bancone dove prendere fiato. Capelli arruffati e impataccati di vernice. Scarpe antinfortunistiche e doppio mento. Un bicchiere di vino non supera i cinquanta centesimi. L’osteria vanta due tavolini, qualche sacchetto di lupino e un calendario religioso. L’unica porta, a parte l’uscita, è comunicante con la casa dei proprietari. Muratori, imbianchini e agricoltori bevono mezzo litro e ripartano con gli occhi bassi. I pensionati, disoccupati o nullafacenti, non troppi, piazzano le chiappe al caldo e non si muovono per un bel po’.

… Dici giusto, ricordo anche io il cane ucciso dai tedeschi e appeso all’albero di fico…

… Da bambino dormivo sopra la greppia del vitello…

… Le schegge di bombe ammazzavano i polli e le galline appostate sopra gli alberi…

… La sbronza di Lucio alla sagra del Castagnolo…

Celestina, in dialetto pergolese, dice di aver visto il diavolo e non aveva le corna. Il demonio era fatto di salute pessima, pochi soldi, tanta fatica. Era costretta a chiudere la figlia piccola in camera e andare a lavorare. Ogni cosa va e passa. Nulla muore, ma tutto si trasforma.

Giancarlo, un uomo sugli ottant’anni con la pancia pronunciata, mi regala sei cetrioli. Sono passati decenni, ma non ha perdonato i tedeschi per avergli rubato i barattoli di miele. “Sparavano i mortai da una collina all’altra, mentre noi poveracci raccoglievamo i fagioli nei campi. I fascisti ci tenevano sotto tiro col binocolo. Se per sbaglio qualche scheggia di bomba o granata stravolgeva i terreni, bisognava ricominciare da capo. Zappare, fare mucchietti di terra, aprire un varco per l’acqua. Dei miei tredici anni ricordo questo. Sono nato a Montesecco ma vivo a Castelleone di Suasa da cinquanta anni. Quella pianta l’ho portata giù da Acqualagna. Sembra una quercia ma non lo è”.

Tiro a indovinare ma sbaglio. Parlottiamo finché la serata migliora e si fa turchina. La pianta anonima e Giancarlo perdono di consistenza, semicancellati dall’oscurità.

A Palmira, memoria vivente della famiglia Morici, pongo una serie di domande inerenti ai rimedi naturali e alla stregoneria. “Se avevi mal di denti, dovevi innanzitutto sfregarci sopra la salvia. Un pomeriggio mi morse un ragno violino mentre ero impegnata nei campi con le pecore. Un giovane farmacista sfregò sopra al morso uno spicchio d’aglio intero e il braccio si sgonfiò. L’ortica, bollita o frullata, si utilizzava per curare il mal di stomaco e il cavolo, meglio se cappuccio, per ridurre gli ematomi.

Con la medicina moderna dicono che la vita si allunghi ma io vedo morire gente come sempre è stato. E poi non allunghi la vita, al massimo allunghi la vecchiaia.

Della guerra ricordo tre cose: i fischi dei cannoni, il ponte di Sassoferrato esplodere, noi bambini che scappavamo nei rifugi urlando. La notte di San Giovanni, il 24 giugno, per tenere lontano il malocchio, si mettevano a bagno in una bacinella foglie di fico, ginestre, erba della Madonna, lavanda. Qualcuno appiccicava tutte queste erbe all’uscio della porta”.

“Prima di poter abitare una casa nuova era tradizione farci entrare un animale. Gatto, gallina, cane, uccello. Era importante, perché nel caso ci fosse stato uno spirito maligno avrebbe ucciso l’animale e non il padrone… Il noce poteva essere piantato solo dagli anziani. Portava male lasciarlo fare ai giovani, perché quando il tronco avesse raggiunto il diametro della loro testa, sarebbero morti… Quando una persona moriva, si aveva l’obbligo di voltare tutti gli specchi della casa. Lo specchio era un sinonimo di vanità e durante il dolore non era decoroso pensare a sé stessi…”.

A Castelleone abitava una strega di nome Maria. Chiunque si trovasse a passare davanti casa sua, doveva incrociare le dita in modo da scongiurare fatture e malefici. Nel borgo fortificato posto su un poggio a destra del fiume Cesano, ancora si racconta di quel giorno che Maria morì: aveva così tanti diavoli in corpo che han dovuto scoperchiare il tetto per liberare lo spirito imbufalito.

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