L’evoluzione ha l’odore delle cortecce frantumate a terra nei boschi inquieti di conifere.
Fra i venti feroci che lambiscono le chiome e noi piccoli umani che tracciamo sentieri provvisori in mezzo alle radici e alle erbe selvatiche, cercando di raggiungere l’altra parte. C’è sempre un’altra parte, c’è sempre un altrove da cui farsi trapassare, c’è sempre un dove in cui non esser mai stati, e, per questo, anelare.
Ho sognato che non potevo andar da nessuna parte, avevano rubato il motore alla mia macchina, era diventata un bellissimo involucro azzurro elettrico che non serviva più a nulla.
O forse era diventata semplicemente un rifugio, una tana da appoggiare in un bosco e metter le tendine alle finestre per chi avuto il bisogno di proteggersi al passaggio. Finora l’ho sognato e basta, e speriamo che non capiti anche questo, che, lasciatici alle spalle la stagione degli alti fulmini, delle ore piccole, delle troppe sigarette, delle escoriazioni contro l’asfalto, del mare alto, della salsedine sul cuscino, dei giorni stropicciati tutti in fila con te come adorato aguzzino, io prendo il respiro. Sposto il diaframma più in basso di una vertebra, un gradino, abito le creste iliache qualche minuto più al giorno, e mi centro. Cosa c’entra?! Volere ti voglio, mica c’è mai nessuno sbaglio. Ma forse è la misura di quanto riesco a stringere e proteggere, a tirarci un recinto intorno e farlo salvo, per non farlo divorare dal bosco, seccar dai venti o ricoprire dalle cortecce, ecco, solo a questo stavo pensando.
Se fossi capace di disegnare, adesso farei una casa per me piccola quanto basta, tonda e immensa come un punto. Qualsiasi altro, mi sa che non ci sta dentro.